Che la situazione dell’università italiana non sia rosea è cosa risaputa. Si sente e si è sentito tanto parlare di tagli alla ricerca, di fuga dei cervelli, di accentramenti, eccetera, ma fino ad ora non mi era mai capitato di leggere nessun articolo che andasse così nel dettaglio delle prospettive dei precari dell’università come quello che ho letto qualche giorno fa su Repubblica. Sebbene la scarsità e la cattiva gestione dei fondi per università e ricerca siano un problema che non riguarda soltanto chi in università lavora ma anche (o forse soprattutto?) chi l’università la frequenta o la frequenterà da studente, nonché il prestigio e l’avanguardia scientifica nazionale, resta il fatto che la situazione del precariato universitario è sempre più grigia ogni anno che passa: prospettive di continuità all’interno degli ambiti universitari bassissime, assenza di tutele e contributi versati e difficoltà nel trovare sbocchi anche nell’ambito privato (causa età avanzata e scarsa dimestichezza con tematiche spendibili nel mondo del lavoro). L’articolo di cui sopra, che riporta i dati di una ricerca condotta dall’ADI, associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani (vale a dire la quasi totalità del precariato universitario), descrive una situazione in cui addirittura l’85% del precariato universitario non avrà mai un contratto a tempo indeterminato in un’università italiana. Il dato è una discreta mazzata per tutti quelli che abbiano qualche ambizione in questo settore anche se, a mio parere, non tiene conto della percentuale (comunque bassa) di chi – per scelta – decide di trovare lavoro in università estere o in ambito privato.
Siccome in università ci ho passato un discreto periodo di tempo, vorrei fare due conti sul come si presenta la situazione a Matematica a Genova, un po’ per vedere se effettivamente siamo in linea con i numeri dell’articolo ma anche perché, spesso, descrivere una situazione particolare fa capire molto meglio quello che percentuali e cifre a nove zeri non lasciano trasparire. Breve premessa: quella del dottorato è la strada che comunemente si intraprende subito dopo la laurea se si vuole diventare professore in un’Università o in un altro ente di ricerca. Fino ad oggi (con la riforma Gelmini sono state introdotte delle modifiche), ottenuto il titolo di Dottore di Ricerca, il percorso classico di un aspirante professore è stato quello di andare avanti con contratti a tempo determinato (detti post-doc) partecipando, contemporaneamente, a concorsi da ricercatore, prima posizione a tempo indeterminato raggiungibile in ambito accademico. Un percorso difficile e minato da molte difficoltà: sebbene (in proporzione) non sia troppo complicato vincere una posizione da dottorando, gli assegni post-doc non sono altrettanto facili da ottenere; ma, quel che più importa, è che non si ha nessuna garanzia sul se (e con che tempi) si riesca a vincere un posto da ricercatore. Le variabili sono molte: legate alle abilità di ognuno e alla rilevanza del proprio curriculum ma anche al numero di posti banditi nel settore scientifico di competenza.
In nove anni, a Matematica a Genova, sono stati banditi soltanto quattro concorsi da ricercatore. Lo stesso dipartimento foraggia quattro borse triennali di dottorato l’anno e ne mette a disposizione altrettante senza borsa: cioè almeno trentasei precari per quattro posti a tempo indeterminato in nove anni! La forbice inizia a stringersi già nel passaggio tra dottorato e post-doc (e forse è un bene in quanto il precario scaricato dall’università è più giovane e più appetibile per il mondo del privato): il dipartimento, infatti, attualmente stanzia fondi per una sola borsa biennale ogni due anni, relegando il futuro immediato di chi ha già raggiunto il titolo di dottore di ricerca alla disponibilità finanziaria del singolo gruppo di ricerca in cui lavora. Se è vero che il mondo della ricerca è globale, è comunque chiaro che se tutti i dipartimenti d’Italia mantenessero le proporzioni genovesi i precari dell’università avrebbero davvero poca strada davanti a sé.
Cosa concludere? Che fare ricerca è un mestiere nobile ma con una posta in gioco davvero molto alta: nessuna garanzia e come unico salvagente l’estero. Conseguenze di questa situazione? Non riguardano soltanto le problematiche dei giovani che scelgono tale carriera ma coinvolgono la salute dell’intero sistema universitario: assenza di ricambio generazionale e, a lungo andare, impoverimento dei contenuti proposti agli studenti. Un sempre minore volume di ricerca svolto dai nostri atenei che scompariranno al cospetto di quelli degli altri stati, più produttivi.
Che situazione, so che tentare la ricerca è un terno al lotto, ma non conoscevo i numeri precisi.
RispondiEliminaConcordo con te sul fatto che non esiste solo il problema della difficoltà ad intraprendere carriere universitarie, ma anche dell'impoverimento dell'offerta formativa! Se non mi sbaglio, in effetti, a matematica già dai prossimi mesi coi pensionamenti spariranno intere branche dell'insegnamento: nello specifico penso all'analisi e alla geometria. Ma così diventa impossibile tenere aperto il corso di laurea, no? O deleghiamo l'insegnamento ai dottorandi...
Che situazione!
Eccomi fare un piccolo salto sul blog. Nei prossimi giorni prometto una presenza maggiore!!!
RispondiEliminaAllora capiamoci... Volete il cinismo più spietato? Coloro che intraprendono una carriera universitaria e non sono disposti a dei sacrifici (vedi estero o attese interminabili) o si aspettano uno scenario da prato fiorito sono degli sprovveduti. Il dottorato, il primo step, deve essere mosso da passione ed impegno, ma deve essere preso per quello che è: un lavoro a tempo determinato con zero garanzie e zero sicurezza sul futuro. Ci vuole fortuna o essere, specie nel nostro campo, dei fuoriclasse assoluti. Chi, come me, sa di non avere la prima e di non essere uno della seconda schiera, fa onestamente il suo, rimandando consapevolmente il problema del futuro. Io ho voluto solo la possibilità di tentare, come ben saprà chi mi conosce.
Un pò è lo stesso discorso di chi, magari cercando di compiangermi nell'anno trascorso, si aggrappa al vecchio discorso anni Sessanta: è ingiusto che "uno che ha studiato" non abbia possibilità nel mondo del lavoro. Questo è ingiusto da morire, ma chi ha fatto l'università pensando di trovare un mondo professionalizzante non ha letto bene il Manifesto degli Studi quando è entrato. Non ci si è resi conto che il mondo è andato avanti e che ora studiano tutti.
Il vero problema, come giustamente faceva presente Doson, è l'offerta formativa. Io sono preoccupato di questo... Qui si continua a far tenere dei corsi a gente ormai pensionata. Nel frattempo si saranno ben guardati dal lasciare il posto ai giovani, evitando accuratamente di reintegrare le cattedre mancanti. La disciplina ne risulterà impoverita, sbiadita. Qualche sapere andrà irrimediabilmente perduto, archiviato, dimenticato.
Accolgo la corretta provocazione di Lore. Sfruttiamo di più i dottorandi, consentiamo loro di tenere minicorsi su qualcosa di diverso, di particolare, di specifico! Facciamo loro tenere delle ore di esercizi, roba di questo genere... Io personalmente sarei felice di farlo! Qualcuno dei piani alti mi ha detto che non è possibile... Boh...
Concludo. Sono d'accordo nel dire che è una merda e che le possibilità sono poche. Basta esserne consapevoli e non svegliarsi a trentacinque anni sorpresi se si è rimasti a terra, tutto qui! Come cambiare le cose? Sono mutamenti lenti, che devono venire dall'alto, non dal basso. Più finanziamenti, più cattedre, più diversificazione nell'offerta formativa (possibilmente anche più di qualità) e, in alcuni casi (penso ad un curriculum Applicativo a Genova) più seria e professionalizzante. Non ricordo chi mi disse che l'applicativo a Genova è una sorta di Generale 2. Perfettamente d'accordo.
Sul discorso dello sfruttamento dei dottorandi non sono molto d'accordo.. Lo sarei un po' di più solo se la cosa fosse opzionale e retribuita a parte come il tutorato..
RispondiEliminaHai tre anni per ottenere qualche risultato in ricerca e giocarti quelle carte nei concorsi successivi al dottorato: se ti metti anche ad insegnare perdi tempo ed emergie e alla lunga lo paghi senza contare che l'insegnamento è un un impegno che ti può precludere collaborazioni internazionali o partecipazione a conferenze.. C'è già una concorrenza spietata nei concorsi: il fatto che alcune università (come peraltro già accade anche a Genova ma non a Matematica) sfruttino deliberatamente i dottorandi per fare didattica li penalizza al confronto di chi invece ha potuto svolgere la sua attività di ricerca intensamente e in pace.
Sì, forse hai ragione... In effetti a me sembra già solo così di avere poco tempo per far il mio, tra tutorato, lezioni, scartoffie, riunioni con il supervisore... Speriamo che tutto ciò sia solo dovuto al fatto che è il primo anno...
RispondiEliminaOvviamente la mia opzione di delegare i dottorandi era una provocazione: non è certo il compito per il quale sono stati assunti!!!
RispondiEliminaCiao a tutti! Vorrei dire la mia sul discorso dell'insegnamento affidato ai dottorandi. Qui in Germania, ma da quello che so anche da moltissime altre parti, l'insegnamento e' parte integrante di un lavoro di un dottorando. A parte alcuni contratti specifici, in cui non c'e' obbligo d'insegnamento (ma di solito li riservano per i Vietnamiti o gli extra-europei) i dottorandi devono insegnare 2 ore a settimana. Di solito si tratta di fare l'esercitatore dei corsi del primo anno, niente di troppo impegnativo, anche se porta via un po' di tempo (soprattutto se si e` stranieri e si insegna in un'altra lingua).
RispondiEliminaComunque per quello che posso vedere mi sembra che la cosa funziona e sinceramente non la considero una perdita di tempo ed energie come la vede Doson. E` vero l'insegnamento puo` precludere partecipazioni a conferenze, workshop, ma non piu` di tanto. Se uno vuole andare via un paio di settimane, gli altri dottorandi lo possono sostituire ricambiando il favore a tempo debito. Certo non si puo` andare via proprio quando si vuole come se si fosse completamente liberi, ma se alla fine dei 3 anni sul curriculum si scrivono 4 conferenze in meno, ma 6 corsi che si sono fatti da assistente forse si ha guadagnato qualcosa. Credo che la parte didattica conti molto per un futuro professore (se e` questo lo sbocco "naturale" per uno che fa ricerca in universita`).
Poi certo un po' di tempo per la ricerca l'insegnamento lo porta via sicuramente, pero` credo che insegnare sia utile anche a chi insegna. Si ripassano gli argomenti di matematica di base e in alcuni casi si possono anche imparare cose nuove.
Quindi in realta' non credo che un dottorando che insegni sia penalizzato, a meno che non lo si sfrutti troppo naturalmente. E sinceramente non capisco perche` non si inizi a farlo anche in Italia visto i seri problemi di didattica a cui si andra` incontro.
Sì sono d'accordo anch'io che il succo sia nel quanto il dottorando è sfruttato. Concordo in effetti che, anche insegnando, si impari qualcosa..
RispondiEliminaTieni però presente che in un concorso da ricercatore in Italia l'insegnamento non fa curriculum. Qualche volta qualche commissario ci butta lo stesso un occhio ma, ufficialmente, l'insegnamento non dovrebbe contare e i corsi che uno ha tenuto non fanno punteggio.. Tanto più che, in Italia, il contratto da ricercatore non prevede l'insegnamento: il fatto che in qualunque università italiana questi si trovino a dover comunque tenere corsi è dovuto al fatto che manca il personale.. Quindi, lo stesso strappo alla regola che proponi per i dottorandi già avviene per i ricercatori!
Non sapevo del fatto che nelle universita` italiane la didattica fosse cosi` poco considerata, non ho mai assistito ad un bando di concorso in Italia. Sono d'accordo che allora un dottorando molto sfruttato per la didattica ci perda in confronto ad un altro che e` stato completamente libero di dedicarsi al suo lavoro. La cosa diventa equa se tutti i dottorandi in tutte le universita` insegnano, senno` se lo fanno solo in una universita` specifica, quest'ultimi saranno penalizzati nei concorsi rispetto agli altri. Almeno fino a quando la didattica non conti un po' di piu`.
RispondiEliminaGiusto non mi ricordavo il fatto che anche i ricercatori non abbiano obblighi di insegnamento! Anche qui ci sarebbe molto da dire.