Una piccola chicca scoperta per caso, che la dice lunga su quanto sia cambiata la società in appena trent'anni, da quando cioè il personal computer ha iniziato prepotentemente ad entrare nelle case della gente comune.
Si tratta di un brano di Primo Levi in cui lo scrittore racconta il suo primo approccio con l'informatica: buona lettura!
Due mesi fa, nel settembre del 1984, mi sono comprato un elaboratore di testi, cioè uno strumento per scrivere che va a capo automaticamente a fine riga, e permette di inserire, cancellare, cambiare istantaneamente parole o intere fra- si; consente insomma di arrivare d'un colpo ad un documento finito pulito, pri- vo di inserti e di correzioni. Non sono certo il primo scrittore che si è deci- so al salto. Solo un anno fa sarei stato giudicato un audace o uno snob; oggi non più, tanto il tempo elettronico corre veloce. Mi affretto ad aggiungere due precisazioni. In primo luogo chi vuole o deve scrivere può benissmo continuare con la biro o con la macchina: il mio gadget è un lusso, è divertente, anche entusiasmante, ma superfluo. In secondo, a rassi- curare gli incerti e i profani: io stesso ero, anzi sono tuttora, mentre scrivo sullo schermo un profano. Di cosa avvenga dietro lo schermo ho idee vaghe. Al primo contatto, questa mia ignoranza mi umiliava profondamente; è accorso a rinfrancarmi un giovane che pa- ternamente mi fa da guida, e mi ha detto: - Tu appartieni alla austera genera- zione di umanisti che ancora pretendono di capire il mondo intorno a loro. Que- sta pretesa è diventata assurda: lascia fare all'abitudine, e il tuo disagio sparirà. Considera: sai forse o ti illudi di sapere, come funziona il telefono o la Tv? Eppure te ne servi ogni giorno. E al di fuori di qualche dotto, quanti sanno come funziona il loro cuore o i loro reni?
Nonostante questa ammonizione, il primo urto con l'apparecchio è stato pieno di angoscia: l'angoscia dell'ignoto, che da molti anni non provavo più. L'elabora- tore mi è stato fornito col corredo di vari manuali, ho cercato di studiarli prima di toccare i comandi, e mi sono sentito perduto. Mi è parso che fossero scritti apparentemente in italiano, di fatto in una lingua sconosciuta; anzi in una lingua beffarda e fuorviante, in cui vocaboli ben noti,come "aprire", "chiu- dere", "uscire", vengono usati in sensi insoliti. C'è sì un glossario che si sforza di definirli, ma procede all'inverso dei comuni dizionari: questi defini- scono termini astrusi ricorrendo a termini famigliari; il glossario pretende di dare un nuovo senso ai termini falsamente famigliari ricorrendo a termini astru- si e l'effetto è devastante. Quanto meglio sarebbe stato inventare, per queste cose nuove, una terminologia decisamente nuova! Ma ancora è intervenuto il gio- vane amico, e mi ha fatto notare che pretendere di imparare ad usare un compu- ter sui manuali è stolto quanto pretendere di imparare a nuotare leggendo un trattato, senza entrare nell'acqua; anzi mi ha precisato, senza sapere cos'è l'acqua, avendone solo sentito vagamente parlare. Mi sono dunque accinto a lavorare sui due fronti, verificando cioè sull'ap- parecchio le istruzioni dei manuali, e mi è subito tornata alla mente la leggen- da del Golem. Si narra che secoli addietro un rabbino-mago avesse costruito un automa di argilla, di forza erculea e di obbedienza cieca, affinchè difendesse gli ebrei di Praga dai pogrom; ma esso rimaneva inerte, inanimato, finchè il suo autore non gli infilava in bocca un rotolo di pergamena su cui era scritto un versetto della Torà. Allora il Golem di terracotta diventava un servo pronto e sagace: si aggirava per le vie e faceva buona guardia, salvo impietrirsi nuo- vamente quando gli veniva estratta la pergamena. Mi sono chiesto se i costrutto- ri del mio apparecchio conoscessero questa storia (sono certo gente colta ed an- che spiritosa): infatti l'elaboratore ha proprio una bocca storta, socchiusa in una smorfia meccanica.
Finchè non vi introduco il disco-programma, l'elaborato- re non elabora nulla, è una esamine scatola metallica; però quando accendo l'in- terruttore, sul piccolo schermo compare un garbato segnale luminoso: questo, nel linguaggio del mio Golem personale, vuol dire che esso è avido di trangugia- re il dischetto. Quando l'ho soddisfatto, ronza sommesso, facendo le fusa come un gatto contento, diventa vivo, e subito mette in luce il suo carattere: è ala- cre, soccorrevole, severo coi miei errori, testardo e capace di molti miracoli che ancora non conosco e che mi intrigano. Purchè alimentato con programmi adatti, sa gestire un magazzino o un archivio, compilare istogrammi, perfino giocare a scacchi: tutte imprese che per il momen- to non mi interessano, anzi, mi rendono malinconico e immusonito come quel maia- le a cui erano state offerte le perle. Può anche disegnare, e questo è per me un inconveniente di segno opposto: non avevo più disegnato dalle elementari, e trovarmi adesso sotto mano un servomeccanismo che fabbrica per me, su misura, le immagini che io non so tracciare, e a comando me le stampa anche sotto il na- so, mi diverte in misura indecente e mi distoglie da usi più propri. Devo fare violenza a me stesso per "uscire" dal programma-disegno e riprendere a scrivere. Ho notato che scrivendo così si tende alla prolissità. La fatica di un tempo, quando si scalpellava la pietra conducendo allo stile "lapidario": qui avviene l'opposto, la manualità è quasi nulla, e se non ci si controlla si va verso lo spreco di parole; ma c'è un provvido contatore, e non bisogna perderlo d'occhio. Analizzando adesso la mia ansia iniziale, m'accorgo che era in buona parte illo- gica: conteneva un'antica paura di chi scrive, la paura che il testo faticato, unico, inestimabile, quello che ti darà fama eterna, ti venga rubato o vada a finire in un tombino. Qui tu scrivi, le parole appaiono sullo schermo nitide, bene allineate, ma sono ombre: sono immateriali, prive del supporto rassicuran- te della carta. "La carta canta", lo schermo no; quando il testo ti soddisfa, lo "mandi su disco", dove diventa invisibile. C'è ancora, latitante in qualche angolino del disco-memoria, o l'hai distrutto con qualche manovra sbagliata? Solo dopo giorni di esperimenti "in corpore vili" (e cioè su falsi testi, non creati, ma copiati) ti convinci che la catastrofe del testo perduto è stata pre- vista dagli gnomi geniali che hanno progettato l'elaboratore: per distruggere un testo occorre una manovra che è stata resa deliberatamente complicata, e du- rante la quale l'apparecchio stesso ti ammonisce: "Bada, stai per suicidarti". Venticinque anni fa avevo scritto un racconto poco serio in cui, dopo molte e- sitazioni deontologiche, un poeta professionale si decide a comprare un Versifi- catore elettronico e gli delega con successo tutta la sua attività. Il mio appa- recchio per ora non arriva a tanto, ma si presta in modo eccellente a comporre versi, perchè mi permette innumerrevoli ritocchi senza che la pagina appaia sporca o disordinata, e riduce al minimo la fatica manuale della stesura: "così si osserva in me lo contrappasso". Un amico letterato mi obietta che così va perduta la nobile gioia del filologo intento a ricostruire, attraverso le suc- cessive cancellature e correzioni, l'itinerario che conduce alla perfezione del- l'infinito: ha ragione, ma non si può aver tutto. Per quanto mi riguarda, da quando ho posto freno e sella al mio elaboratore ho sentito attenuarsi in me il tedio di essere un Dinornis, un superstite di una specie in estinzione: l'uggia del "sopravvissuto al suo tempo" è quasi scompar- sa. Di un incolto, i Greci dicevano: "non sa né leggere né nuotare"; oggi si ag- giungerebbe "né usare un elaboratore"; non lo uso ancora bene, non sono un dot- to e so che non lo sarò mai, ma non sono più un analfabeta. E poi dà gioia po- ter aggiungere un item al proprio elenco dei "la prima volta che" memorabili: che hai visto il mare; che hai passato la frontiera; che hai baciato una donna; che hai destato a vita un Golem.
[L'altrui Mestiere
- Primo Levi]
Bello.. Ci ha preso su parecchie cose!
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