martedì 6 settembre 2011

Un manifesto per un nuovo sistema educativo


Sul numero di settembre di Wired c'è una sezione dedicata alla scuola e in particolare alla necessità di una riforma radicale di un sistema scolastico vaccaio e superato. Tra gli articoli, mi è piaciuto particolarmente quello di Sir Ken Robinson, docente in educazione, creatività e innovazione. È un po' lungo ma molto interessante, anche per chi come me non è molto esperto del settore.
Da notare che in questo articolo si parla di istruzione a livello globale (o almeno, a livello di paesi occidentali), non solo a livello italiano.
Ogni singolo paese del mondo, in questo momento storico, è alle prese con la riforma del sistema educativo. Per due ragioni principali. La prima è di ordine economico. Come facciamo ad aiutare i nostri figli a trovare il loro posto nell'economia del Ventunesimo secolo? Ma come possiamo riuscirci se, come hanno dimostrato i recenti disastri, non siamo neanche in grado di prevedere lo scenario economico da qui a una settimana? La seconda ragione, invece, è di tipo culturale. Come possiamo educare i nostri studenti in modo che riescano a costruirsi un senso di identità, necessario per mantenere viva la comunità e trasmettere un patrimonio culturale mentre siamo parte di un processo di globalizzazione?  
Il problema è che si sta cercando di rispondere a questi due quesiti ripetendo quello che si faceva in passato. Così però consolidiamo il senso di alienazione di milioni di bambini e ragazzi che non vedono nessun motivo valido per andare a scuola. A noi raccontavano la storia che se avessimo studiato tanto, e avessimo avuto dei bei voti, saremmo andati all'università e avremmo trovato un bel lavoro. E questo bastava a trattenerci sui banchi. I nostri figli non ci cascano e, in effetti, non hanno tutti i torti. Certo, è sempre meglio avere una laurea, ma questo non garantisce più la possibilità di trovare un lavoro, specialmente se il percorso per raggiungerla ti porta a trascurare aspetti della tua personalità che ritieni importanti. Si parla così di alzare gli standard. Del resto, perché bisognerebbe abbassarli? Ma il vero punto è che l'attuale sistema scolastico è stato progettato, ideato e strutturato per un'altra epoca.
È stato concepito nel clima culturale e intellettuale dell'Illuminismo e nelle circostanze economiche della prima rivoluzione industriale. Prima del 1850 non esistevano istituzioni scolastiche pubbliche (al massimo si poteva essere educati dai Gesuiti che accoglievano chiunque fosse disposto a pagare profumatamente). Ma l'istruzione pubblica finanziata dalle tasse dei cittadini, obbligatoria per tutti ed erogata gratuitamente, è stata un'idea rivoluzionaria. Tanto rivoluzionaria che molti si opposero: "I ragazzai di strada, i figli degli operai, che se ne fanno dell'istruzione? Non impareranno mai a leggere e a scrivere, quindi perché perdere tempo?". Secondo i pregiudizi dell'epoca, le facoltà mentali erano direttamente proporzionali al ceto sociale di appartenenza.
La rivoluzione scolastica è stata imposta da un imperativo economico di quel momento storico, ma era pervasa da un modello intellettuale derivato essenzialmente dalla visione illuministica dell'intelligenza. Secondo questa concezione, la vera intelligenza consisteva nella predisposizione a un certo tipo di ragionamento deduttivo e nella conoscenza dei classici, sviluppando così un'abilità di tipo accademico. Queste convinzioni sono profondamente radicate nel corredo genetico dei nostri sistemi di istruzione pubblica, che dividono le persone in due tipi. Studiosi e svogliati. Intelligenti e stupidi. E la conseguenza è che molte persone brillanti pensano di non esserlo affatto, perché sono state giudicate secondo questa specifica visione della mente e dell'intelligenza. Il nostro modello scolastico poggia su due pilastri: uno economico e uno intellettuale, e a mio avviso questa architettura ha contribuito a creare confusione nella vita di molte persone. Alcuni ne hanno tratto enormi vantaggi, ma non si può dire lo stesso della maggioranza, che ne ha risentito pesantemente.
Prendiamo, per esempio, un'assurda quanto fittizia epidemia della modernità: la sindrome da deficit di attenzione e iperattività. Non fraintendetemi, non è mia intenzione negarne l'esistenza. Non possiedo le qualifiche necessarie per determinarne l'esistenza o meno. So che la stragrande maggioranza degli psicologi e dei pediatri è convinta che sia una realtà; ma è ancora tutto da vedere. Quello che so per certoè che non si tratta di un'epidemia. Abbiamo cominciato a imbottire i bambini di medicinali con la stessa facilità con cui ai miei tempi si toglievano le tonsille. Ma i nostri figli stanno vivendo nel periodo più stimolante in assoluto nella storia del pianeta. Sono bombardati da informazioni da tutte le parti e la loro attenzione deve costantemente diramarsi in direzioni diverse: computer, iPhone, pubblicità di centinaia di canali televisivi. E noi li penalizziamo perché si distraggono. Da cosa? Roba noiosa, principalmente a scuola. E cosi gli facciamo buttare giù Ritalin e Adderall e chissà cos'altro. Pensiamo un attimo all'arte, la vittima principale di questa mentalità. Le arti si focalizzano su quella che viene definita un'esperienza estetica. Un'esperienza estetica è quella in cui tutti i tuoi sensi stanno operando al massimo. Sei totalmente vivo. "Anestetico" è quando invece spegni i tuoi sensi e perdi il contatto con ciò che sta succedendo, e molti farmaci producono questo risultato. Stiamo istruendo i nostri figli anestetizzandoli. E credo che dovremmo fare esattamente il contrario. Non dovremmo farli addormentare, ma risvegliarli al suono di quello che racchiudono dentro di loro.
Tuttavia, il modello di cui disponiamo ce lo impedisce, perché è plasmato sugli interessi dell'industrializzazione e dell'immagine che si ha di essa. Vi faccio un paio di esempi. Le scuole sono ancora organizzate sul modello della linea di produzione, come in fabbrica. Ci sono le campanelle, delle strutture separate, gli alunni si specializzano in materie diverse. Educhiamo ancora i bambini per annate: li inseriamo nel sistema raggruppandoli per età. Perché mai? Perché si crede ancora che la cosa più importante che i bambini hanno in comune sia la loro età? È come affermare che la loro caratteristica fondamentale sia la data di produzione. Ebbene, io conosco bambini che sono molto più avanti dei loro coetanei in certe discipline, oppure che rendono di più in momenti diversi della giornata, o che fanno meglio in piccoli gruppi piuttosto che in classi numerose e addirittura bambini che a volte vogliono starsene per conto loro.
Un interesse reale per i modelli di apprendimento non parte da questa mentalità da catena di montaggio. Anche con il fiorire dei test e curricula standardizzati si sta incentivando un sistema basato sul conformismo, mentre dovremmo andare esattamente nella direzione opposta. È questo che intendo quando parlo di nuovi paradigmi. 
Di recente è stato fatto un validissimo studio sul "pensiero divergente". Non bisogna confondere il pensiero divergente con la creatività. Definisco la creatività come il processo che porta ad avere idee originali di valore. Il pensiero divergente non è un sinonimo, ma una capacità essenziale per essere creativi. È l'abilità di vedere molte possibili risposte a una domanda, e soprattutto molti possibili modi di interpretare quella domanda; è la capacità di pensare non solo in modo lineare ma "lateralmente", per usare la definizione di Edward De Bono, e di vedere molte risposte, non solo una. Esistono test per misurare questa abilità. Per farvi un esempio molto banale, si potrebbe chiedere alla gente: "Quanti modi ti vengono in mente per usare una graffetta?". La maggior parte di noi ne trova 10 o 15. Quelli più bravi ne trovano anche 200. E li trovano facendo domande del tipo: "La graffetta potrebbe essere alta 60 metri e fatta di gommapiuma? Deve essere per forza una graffetta come conosciamo?". Questo tipo di test è stato fatto a 1500 persone e i risultati sono riportati in un libro intitolato 'Breakpoint and Beyond'. Chi otteneva risultati sopra un certo punteggio poteva considerarsi un genio del pensiero divergente. Sapete quale percentuale ha raggiunto il livello 'genio'? Ah, dovete sapere un'altra cosa: erano tutti bambini dell'asilo. Ve lo dico io: il 98%. Essendo uno studio a lungo termine, hanno ritestato gli stessi bambini cinque anni dopo, all'età di 8-10 anni. La percentuale? Si era dimezzata. Li hanno riesaminati ancora dopo lo stesso intervallo di tempo, all'età di 13-15 anni: un tracollo. È un esempio davvero rivelatore. A rigor di logica avrebbe dovuto essere l'opposto. All'inizio non sei tanto bravo, ma man mano che cresci lo diventi sempre di più.
L'aneddoto, comunque, ci mostra due cose: la prima è che abbiamo tutti la capacità innata del pensiero divergente; la seconda è che essa si deteriora col tempo. Sono successe un sacco di cose a questi bambini mentre crescevano. Ma una delle cose più importante è che nel frattempo hanno ricevuto un'istruzione: sono convinto che il motivo sia questo. Per dieci anni a scuola si sentono dire che c'è solo una risposta giusta, che si trova alla fine del libro, "ma mi raccomando non sbirciate! E non copiate, che è da imbroglioni!". Anche se fuori da scuola la chiameremmo 'collaborazione'… Non è colpa degli insegnanti. Purtroppo è parte del dna del sistema scolastico. Dobbiamo cominciare a vedere le capacità umane sotto un'altra luce. Per prima cosa, dobbiamo sbarazzarci di questi concetti antiquati come scolastico, non scolastico, astratto, teorico, pratico e vederli per quello che sono: dei miti. E poi dobbiamo riconoscere che un apprendimento efficace avviene principalmente in gruppo, e che la collaborazione è il fondamento stesso della crescita. Se atomizziamo le persone, le dividiamo e le giudichiamo separatamente, formiamo una specia di barriera tra loro e il loro ambiente naturale di apprendimento. Infine, posso affermare che il problema cruciale risiede nella cultura delle nostre istituzioni, nel clima che vi si respira e nelle abitudini che hanno consolidato.

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